Testimonianze


La maestà della vita_numero 30 ottobre 2021

Ho 29 anni e sono medico da 4. Ho lavorato presso l’Hospice di Dovadola da gennaio a ottobre 2021, con il desiderio di conoscere di più il mondo delle Cure Palliative e con l’obiettivo di fare esperienza.
Sto concludendo questi mesi con la consapevolezza di aver toccato con mano la bellezza di una professione, il medico palliativista, che ha la “pretesa” di curare tutti, di lenire le sofferenze, di farsi carico e di avere a cuore pazienti e familiari, di alleggerire i fardelli della malattia, di accompagnare fino agli ultimi minuti di vita coloro che non hanno spazi di recupero.
Sono stati dieci mesi intensi, che mi hanno fatto crescere, come persona e come medico; i primi insegnanti sono stati i pazienti, poi i colleghi (medici, infermieri, OSS, psicologhe, fisioterapisti e volontari) che mi hanno camminato accanto con fiducia e pazienza. Ogni paziente che arriva rappresenta una famiglia che entra nelle nostre giornate, una storia irripetibile da ascoltare e da valorizzare.
Il convivere quotidianamente con la sofferenza e la morte mi ha imposto tanti interrogativi su temi attuali (fine-vita, eutanasia, accessibilità alle cure) e tutte le persone con cui mi sono confrontata mi hanno consegnato pezzetti delle loro esperienze, che mi hanno arricchito. I colloqui con i familiari e i pazienti sono stati esperienze forti: improvvisamente entravo nelle vite di queste persone e dovevo riuscire a trovare le parole giuste per essere chiara, sincera, mite, paziente e meritarmi fiducia: un esercizio di umanità e professionalità nello stesso tempo! Difficilissimo!
Ma per fortuna non ero sola e tutto il personale mi ha aiutato a partire dalle attività “di routine”, fino ai momenti più difficili: credo sia stata soprattutto questa ricchezza di relazioni che mi faceva dire a chi mi chiedeva: “Come ti trovi a lavorare in Hospice?” la risposta “Benissimo, sono contenta!”.
Spero davvero che le Cure Palliative siano ancora parte del mio cammino lavorativo e che possano essere realtà sempre più conosciute e valorizzate, a partire dai percorsi di studio universitario fino a tutta la società civile.

Testimonianza di Linda, medico in Hospice


A volte la vita ti mette davanti a ostacoli insormontabili da superare da soli, nonostante tutti gli sforzi, la coesione familiare e l’amore possibili. Purtroppo è quello che è successo alla mia famiglia, quando la malattia di mio padre è diventata ingestibile. Da soli non ce l’abbiamo più fatta.
Nessuno sa di preciso come e quando sia iniziata, ma sappiamo quando è arrivata al punto di rottura: ottobre 2020. L’Alzheimer di mio padre aveva lentamente cancellato dalla sua mente anche come si facesse a mangiare e bere ed un ricovero d’urgenza era ormai obbligatorio. Il primo mese a Forlì nel reparto di Geriatria Acuti, nel pieno della seconda ondata del virus: una situazione difficile per le normative. Sapere dov’è tuo padre, ma non poterlo vedere, con l’unico sollievo di videochiamate che il gentilissimo personale del reparto ci ha regalato.
Le condizioni ormai stabili hanno portato mio padre ad essere trasferito in quella che doveva essere una struttura di passaggio: l’Hospice di Forlimpopoli. Il sollievo per la mia famiglia è stato immediato, visto che mia madre, cittadina artusiana, ha avuto finalmente la possibilità di andarlo a trovare ogni giorno per un’ora. Quello che doveva essere un passaggio veloce (qualche settimana) nell’attesa di un trasferimento in un’altra struttura, si è tramutato in una permanenza di alcuni mesi, fino al giorno della sua dipartita. Mesi costellati di alti e bassi, paura e sollievo. Le condizioni che da stabili peggioravano, per poi ristabilizzarsi. Questo ogni volta in concomitanza di un paventato trasferimento, come se mio padre, a modo suo, ci dicesse: “Sto bene qui, non portatemi via”.
Tra le montagne russe di quel periodo, la costante è stata la professionalità che abbiamo incontrato, dal primo all’ultimo giorno, che si esprimeva in ogni aspetto, dalla precisione delle comunicazioni alla disponibilità ad ogni livello, dalla gentilezza in ogni gesto e parola, alla pazienza continua.
Siamo sicuri siano stati mesi complicati anche per il personale dell’Hospice: sapevamo che erano abituati a confrontarsi con situazioni del genere, ma al tempo stesso quanto potesse essere faticoso avere a che fare con mio padre. Ma loro lo hanno fatto per mesi, senza mai farci pesare nulla, aiutandoci anche quando si trattava di prendere decisioni complicate. E ce ne sono state, quando il momento si avvicina. La cortesia e l’umanità con cui hanno concesso alla mia famiglia anche qualche piccolo strappo alla regola, soprattutto nell’ultima settimana di vita di mio padre, rimarrà per sempre nel nostro cuore: abbiamo avuto la fortuna di essere accompagnati da persone, prima ancora che professionisti.
E così, l’amara consapevolezza che ci ha portato ad ammettere che da soli non ce l’avremmo più fatta, si è trasformata nell’unico sollievo di quel periodo: essere stati accolti e accompagnati, non solo nell’assistenza a mio padre, ma in un sostegno che ha riguardato tutta la nostra famiglia. Quando, con la mente così totalizzata dal dare, non sapevamo invece di avere così bisogno di ricevere.

Testimonianza di Enrico


La maestà della vita_numero 29 marzo 2021

Mio marito è mancato il 2 ottobre ed il dolore è quotidianamente vivo e attanagliante. Quando mi è stato chiesto di scrivere una testimonianza per l’Hospice, è sorto in me un certo rifiuto perchè la cosa sarebbe stata notevolmente dolorosa. Poi ripensando a quanto dobbiamo all’Hospice e al suo Servizio Domiciliare, ho creduto che questo potesse essere un ringraziamento per quanto è stato fatto per noi.
Durante la malattia e i ricoveri, il grande desiderio di mio marito era quello di poter vivere la fine della sua vita a casa, accanto alle persone che amava. E’ per questo che, finite le speranze di possibili miglioramenti, mio marito è stato accolto all’Hospice con l’intento di verificare se fosse stato possibile continuare la terapia a casa nostra.
Ho conosciuto l’Hospice in un momento in cui il coronavirus mi permetteva di stare con mio marito solo due ore al giorno, ma ho potuto constatarne l’accoglienza familiare che vi si respirava. Qui ho ricevuto le prime lezioni su cose essenziali che dovevano essere fatte a casa, come preparare la sacca nutrizionale, come preparare, inserire e cambiare le flebo. Qui abbiamo atteso il ritorno a casa, anche con la paura, poi, di non farcela, di rimanere soli davanti ad un aggravamento ingestibile della malattia.
Non avrei mai pensato di avere invece un aiuto eccezionale dal Servizio Domiciliare dell’Hospice.
Non siamo mai stati lasciati soli. La presenza quotidiana dell’infermiera, le frequenti visite della dottoressa, le disponibilità ad ascoltarci ed aiutarci telefonicamente in ogni momento, anche al di fuori degli orari di lavoro, ci hanno permesso di resistere fino in fondo. Sono state diverse le persone del servizio che sono state presenti in casa nostra, sia fisicamente che telefonicamente, e le ringrazio tutte con un grande abbraccio: i medici, le infermiere, la OSS, la fisioterapista. Le ringrazio non solo per la loro disponibilità e competenza professionale, ma anche per il calore umano, direi familiare, per il sostegno psicologico che ci hanno saputo donare. Un ricordo che avrò sempre nel cuore: il lungo abbraccio della dottoressa nel momento finale.

Testimonianza di Franca


Sono un’infermiera che lavora per l’associazione Amici dell’Hospice. Il mio impegno lavorativo è quello di coprire i pomeriggi, garantendo la reperibilità per qualsiasi problema ai nostri pazienti oncologici e ai rispettivi caregiver.
Il mio lavoro affianca quello delle mie colleghe dell’Ausl Romagna che al mattino seguono costantemente un gruppo di pazienti più o meno fisso: io intervengo, quindi, nelle situazioni straordinarie che si possono presentare.
Al pomeriggio vengono garantiti i secondi accessi giornalieri per i pazienti definiti più critici a livello assistenziale e clinico. I miei compiti sono di assistenza infermieristica, educazione terapeutica e soprattutto sostegno al paziente e al caregiver.
Il mio lavoro si basa su accessi garantiti e programmati, ma anche sulla reperibilità telefonica fino alle ore 19. In media al giorno ricevo circa 4-5 chiamate, per le quali spesso è sufficiente un supporto telefonico, in merito a consigli sulla somministrazione di alcuni farmaci per dolore o altri sintomi non del tutto controllati.
Ci sono anche delle chiamate che necessitano dell’accesso infermieristico, che viene garantito e supportato anche dalla presenza dei nostri medici reperibili.
Io credo che il servizio pomeridiano sia indispensabile, in quanto è un’assistenza completa che i pazienti e i loro famigliari apprezzano e percepiscono come una sicurezza in un momento di difficoltà; trasmette loro una maggiore serenità sapere che negli orari prestabiliti è sempre presente qualcuno pronto a rispondere ai loro dubbi e a intervenire immediatamente se necessario.
Inoltre, in un periodo come questo, permette ai famigliari di poter stare accanto al paziente stesso, con un’assistenza adeguata e un supporto indispensabile sia sanitario che psicologico.

Testimonianza di Chiara, infermiera della nostra associazione


La maestà della vita_numero 28 dicembre 2020

E’stato difficile, molto difficile (e continua ad esserlo), gestire una situazione inaspettata, come quella generata dal Coronavirus, ove tutte le certezze vengano messe improvvisamente in discussione.
L’emergenza sanitaria COVID 19, rispetto ai primissimi mesi, sembra si sia notevolmente ridimensionata, ma risulta tuttora difficoltoso mantenere un clima di tranquillità e distensione e, al contempo, garantire la sicurezza necessaria nel rispetto di tutte le procedure e i protocolli aziendali messi in atto.
Questa difficoltà appesantisce soprattutto noi operatori sanitari che lavoriamo in hospice, dove, da sempre, si cerca di ricreare un ambiente che sia il più confortevole e familiare possibile sia per le persone ammalate che per i loro cari.
Non è semplice presentarsi nelle camere di degenza, dovendo continuamente erigere una sorta di barriera, di muro divisorio tra noi e il paziente e i suoi familiari, soprattutto quando si è sempre stati abituati ad accogliere il dolore altrui, stringendo una mano, abbracciando calorosamente, vivendo spesso fisicamente le emozioni da entrambe le parti.
Allo stesso modo diventa problematico gestire una limitatissima e contingentata accessibilità all’interno del reparto da parte dei familiari e delle persone care ai pazienti…. Inevitabilmente tutto questo genera un senso di frustrazione e impotenza che coinvolge senza eccezioni tutte le figure coinvolte in questo delicato contesto.
E’ altresì importante che il team di lavoro agisca sempre in maniera coesa, condividendo le problematiche e mantenendo sempre uno sguardo attento ai bisogni e agli interessi dei pazienti e dei loro familiari.
Il senso di umanità, il rispetto verso l’altro e la multiprofessionalità risultano essere, anche in questa circostanza avversa, le carte vincenti e fondamentali per una corretta gestione di tutte le attività interne a questo piccolo, grande ambiente protetto chiamato Hospice.

Testimonianza di Dario, OSS in hospice


La maestà della vita_numero 27 aprile 2020

Dal 5 marzo 2019 l‘associazione Amici dell’Hospice ha integrato il servizio di assistenza domiciliare (Unità Cure Palliative Domiciliari) con la presenza di un Operatore Socio-Sanitario. Fin dal primo colloquio con i referenti dell’associazione ho deciso che avrei accettato di fare parte di questo progetto di aiuto ai pazienti e alle loro famiglie, soprattutto per l’approccio umano, vista anche la mia formazione in psicologia clinica. L‘operatore che entra nelle case deve essere in grado di accedervi in punta di piedi, senza invadere, osservando, ascoltando e successivamente indirizzando. In questi mesi sono entrata in numerose case, in numerose vite, in alcune accolta di più, in altre meno, ma sempre accettata.
M., ogni volta che varcavo la soglia della sua stanza, mi chiedeva “Come stai?”. Lui che non sapeva bene come sarebbe stato il suo futuro, chiedeva a me come stavo e si preoccupava di non farmi perdere troppo tempo sapendo che vedevo altri pazienti dopo di lui… Lui che mi ha raccontato della sua fede ritrovata con immensa gioia dopo la diagnosi di malattia. La stessa fede che non lo ha più abbandonato. Che insegnamento è stato per me questo incontro!
Da parte mia ho cercato di portare positività in ogni situazione.
Ci sono famiglie come quella di D., che per mesi mi hanno accolto come una di loro, dove ho conosciuto figli e nipoti, entrando in contatto con ogni componente della casa, perchè hanno deciso che quel periodo difficile volevano viverlo insieme, per sostenersi e condividere ogni prezioso istante. Qualche giorno fa le parole di D. mi hanno commossa: “Sei nei nostri cuori come un angelo che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e che ci è stato vicino riscaldandoci in quel doloroso periodo… un forte abbraccio”.
Ogni giorno entro a contatto con famiglie che hanno bisogno di supporto pratico, ma anche di tanta relazione per migliorare la qualità di vita della persona ammalata e dell’intero nucleo famigliare. Ma in realtà sono proprio loro a dare tanto a me, con la loro forza, insieme ai sorrisi che ci si scambia quotidianamente, nonostante la fatica.

Testimonianza di Giorgia, OSS in assistenza domiciliare


La maestà della vita_numero 26 novembre 2019

E’ una catena grande quella dell’amore, non si spezza e lega indissolubilmente cielo e terra.
Guglielmo, mio babbo, è salito al cielo lo scorso 20 maggio. Ha passato le ultime settimane della sua vita all’Hospice. Sembrava che il tempo dovesse essere più breve di quello che ci dissero ma lui, uomo di grande tempra e tenacia, fu capace, anche in questa occasione, di donarci ancora del tempo insieme.
Un tempo particolare perchè negli ospedali solitamente è difficile, soprattutto per chi ci passa tanto tempo, scandire le giornate e non è sempre facile, in particolar modo per un luogo come questo che “accompagna” le persone, ricevere visite.
La nostra esperienza all’Hospice, come di tutto il periodo della malattia, è stata (usando un aggettivo che può sembrare stonato ma che più si avvicina al senso) un’esperienza “bella”.
Siamo entrati con la grande consapevolezza che quasi sicuramente non saremmo tornati indietro, ma con la certezza che non avremmo lasciato un secondo alla morte, che avremmo continuato a vivere e a scegliere di vivere. Per questo ho scelto l’aggettivo “bella”: perchè l’abbiamo vissuta continuando a sperare, e la speranza non ha nulla a che vedere con l’ottimismo.
Non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà.
Ecco allora che la stanza numero 9 è diventata come una casa con le porte sempre aperte. Aperta alla nostra quotidianità, che a denti stretti volevamo continuare a vivere, fatta di amici, di diverse fasce d’età, che entravano sulla punta di piedi e con il volto “impacciato” ma che uscivano con il sorriso; di colleghi che hanno saputo trasformare la stanza anche in un ufficio riunioni, segno tangibile di chi vuole continuare a “guardare avanti”; di libri e di giornali, per rimanere informati sull’attualità ma ancor di più per mantenere attiva quella passione per la carta stampata; di medici e di infermieri, che da 2 anni erano parte della nostra quotidianità e che in quegli ultimi giorni hanno sempre saputo essere molto professionali, con modi gentili e cortesi, rispettosi, silenziosi. Una grande umanità che ogni giorno ci accoglieva e si prendeva cura del babbo.
Nonostante l’avvento della malattia, il babbo, la mamma e tutti noi abbiamo scelto e deciso di tenere aperta la nostra quotidianità agli altri. Questa vicinanza, questa prossimità di sguardi e di cuori è continuata anche all’Hospice di Forlimpopoli, come una catena che lega indissolubilmente cielo e terra, fino all’ultimo istante di vita terrena.

Testimonianza di Edoardo Russo sul padre Guglielmo


La maestà della vita_numero 25 aprile 2019

Era l’inizio del 2016 quando Pinuccio presentò alcuni problemi: poca forza in un braccio, una gamba che trascinava ed un formicolìo al viso. Andammo ad una visita dal neurologo, che sospettò si trattasse della patologia Parkinson. Facemmo esami approfonditi e venne fuori che quella era una malattia extrapiramidale, molto peggio del Parkinson. Lo portammo a Bologna all’Ospedale Bellaria, dove fu sottoposto a risonanza magnetica cervicale ed emerse che aveva una compressione del midollo C3-C4. Fu operato a Cesena nell’aprile 2017: l’intervento andò bene, ma i benefici durarono appena un mese, poi tornò a perdere le forze.
Nel mese di luglio fu ricoverato al Bellaria, dove rimase una settimana: prima di dimetterlo una dottoressa ci volle parlare e ci disse che dovevamo rassegnarci: non si poteva fare nulla, non c’era una cura per lui. A me e ai miei figli cadde il mondo addosso. Mio marito era un uomo di fede e di preghiera: faceva l’accolito e portava la Comunione agli ammalati. Se la medicina non funzionava la grande fede che aveva lo rendeva forte nella malattia. Era lui che incoraggiava noi. A gennaio 2018 fu ricoverato di nuovo, perchè i polmoni cominciarono a non funzionare: fu proprio in quel momento che ci consigliarono di rivolgersi all’Hospice di Forlimpopoli. Ci mettemmo in contatto e diverse volte fu visitato dai medici della struttura.
A maggio facemmo la broncoscopia, da cui emerse che nei polmoni c’erano dei batteri. Gli antibiotici lo debilitavano e ancora di più la diarrea: gli venne anche un’ernia inguinale che gli procurava forti dolori: cominciò ad utilizzare il catetere. Pinuccio disse “Ora sono crocifisso”. Stava sempre peggio: non aveva neppure la forza di tossire.
Ad agosto il pneumologo lo visitò e gli indicò due strade: la tracheotomia o andare all’Hospice. Lui scelse l’Hospice, perchè disse che i nostri quattro nipotini non potevano vedere il nonno troppo sofferente.
Il 24 agosto entrammo all’Hospice di Dovadola: Pinuccio era contento perchè la struttura era dedicata a Benedetta Bianchi Porro, in onore della quale aveva partecipato tante volte alle messe e alle cerimonie. Siamo stati accolti in quel luogo da persone speciali, dobbiamo elogiare tutti coloro che fanno parte di quell’equipe.
Abbiamo trascorso con loro 42 giorni: io, i miei figli e mio cognato li abbiamo considerati come la nostra seconda famiglia.
Si sono presi cura di lui sempre con gentilezza, educazione, con il sorriso e con tanto amore. Pinuccio si era affezionato a tutti loro ed erano diventati suoi amici: lui che per ben 30 volte era andato a Luordes ad aiutare i malati, ora aveva bisogno del loro aiuto.
Era molto sofferente, ma non si lamentava, perchè offriva tutto per salvare le anime del Purgatorio: pregava e amava tanto la Madonna, che lui chiamava Mamma Celeste. Non ci voleva vedere piangere e dai suoi occhi sprigionava una luce particolare: il 5 ottobre ci ha lasciato, insegnandoci che anche nel dolore bisogna amare il Signore.
Pinuccio era un uomo semplice: lui ora vive nel nostro cuore e nel cuore di tutti quelli che gli hanno voluto bene. Sono convinta che da lassù continuerà a proteggerci.
Quante persone sono venute al funerale: la Chiesa non riusciva a contenerle! Pinuccio ha sempre desiderato di essere sepolto in terra: ora riposa nel campo del Cimitero Monumentale. Dietro di lui c’è una fila di bimbi sepolti: lui farà il nonno di quegli angioletti.

Testimonianza di Daniela, moglie di Pinuccio Labbate


La maestà della vita_numero 24 novembre 2018

Una storia straordinaria di generosità: così si potrebbe definire il forte legame fra il Circolo ARCI di Villa Rotta con la nostra associazione da ben 12 anni, nei quali i volontari della frazione forlivese hanno organizzato eventi, donato tempo ed energie per raccogliere fondi da destinare agli Hospice del territorio.
“Tutto è iniziato – spiega Aureliano Ronchi, uno dei volontari del Circolo – quando mia madre Maddalena e Paola Minghetti (storica barista del Circolo) hanno avuto bisogno delle cure dell’Hospice: qui abbiamo respirato, pur nella sofferenza che in entrambi i casi è sfociata nella scomparsa di queste due persone, un’umanità e un’accoglienza fuori dal comune. È stata questa la molla che fece scattare in noi il desiderio di sostenere questa struttura sanitaria così importante per il territorio. Partimmo nel 2006 con la prima edizione di VillaRottainFesta, una cena benefica per raccogliere fondi con mille dubbi: i risultati furono, però, soddisfacenti da subito. Nelle edizioni successive è cresciuto il coinvolgimento dei volontari (oggi siamo 15) e quello di tante aziende, che sponsorizzano l’evento con entusiasmo”.
La dodicesima edizione della manifestazione, svoltasi il 16 giugno, ha registrato la presenza di 170 persone che hanno degustato la cena preparata dai volontari e animata dalla musica dal vivo della band Anima Pop: nella serata sono stati donati agli Amici dell’Hospice ben 3.500 euro, a cui vanno aggiunti altri 1.000 euro, frutto della Serata Cappelletti del 29 giugno all’interno della Festa Artusiana di Forlimpopoli, per la quale i volontari di Villa Rotta hanno preparato 100 kg di pasta fresca e servito circa 500 piatti di tortelli e cappelletti.
“Questa seconda iniziativa – continua Aureliano Ronchi – è giunta alla terza edizione ed è nata per un caso specifico: qualche anno fa Adriano Bonetti (assessore del Comune di Forlimpopoli) partecipò all’evento a Villa Rotta e ci propose di organizzare qualcosa di simile alla festa Artusiana: abbiamo colto la palla al balzo e siamo partiti in questa nuova avventura. Ci tengo a dire, poi, che un terzo tassello completa le attività a favore della vostra associazione: la realizzazione di di biscotti artigianali preparati da noi che vengono poi venduti all’interno di varie manifestazioni. Tutto ciò in 12 anni ci ha permesso di donare la consistente cifra di 30.000 euro: per noi è una grandissima soddisfazione”.
“Credo che la generosità dei volontari di Villa Rotta – commenta Alvaro Agasisti, presidente della nostra associazione – parli da sola: noi siamo infinitamente grati a questi amici che ci supportano con grande entusiasmo e sono per noi uno stimolo per continuare con impegno le nostre attività sanitarie e di assistenza domiciliare”.

Intervista a Aureliano Ronchi


La maestà della vita_numero 23 maggio 2018

Lo scorso 3 marzo, presso l’Aula Paolo VI in Vaticano, Papa Francesco ha incontrato i rappresentanti di FNOPI (Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche), fra cui una delegazione provinciale di Forlì e Cesena di circa 100 persone, guidata dalla giovane presidente Linda Prati.
Tale federazione, pur avendo una lunga tradizione, di fatto, sta muovendo i primi passi in quanto è stata riformata nel mese di febbraio 2018 a seguito della Legge 3/2018 (legge Lorenzin), prendendo l’eredità della “vecchia” IPASVI.
“Si è trattato di un incontro particolarmente significativo – ha commentato Linda Prati – specie per come è stato proposto. In effetti non siamo stati noi a richiedere un incontro con il Santo Padre, ma l’iniziativa è venuta proprio da lui che ha espresso il desiderio di conoscerci ed incontrarci. Sono venuta a conoscenza di questa graditissima sorpresa nel mese di dicembre, nel corso di una riunione del Consiglio Nazionale a Roma e, rientrata in Romagna, ho contagiato con il mio entusiasmo i miei iscritti (ndr 3.200 in provincia di Forlì-Cesena) e in poche ore abbiamo esaurito i 100 posti a nostra disposizione per recarci a Roma”.
L’incontro con Papa Francesco, di fatto, è stato per FNOPI (450.000 iscritti in Italia) una sorta di avvio di un impegno professionale che, come ha sottolineato il Pontefice, abbraccia non solo la sfera contrattuale, ma una forte comunanza di valori umani che stanno alla base di questa delicata professione.
“Ascoltando le parole di Papa Francesco – continua Linda Prati – ho percepito una vicinanza che non immaginavo: i suoi pensieri sono andati dritto dritto al cuore, come se lui fosse un esperto del nostro lavoro, quasi una persona che ne condivide la quotidianità. Mi riferisco all’accenno alla nostra missione: ci ha definiti esperti in umanità con il compito di umanizzare una società distratta che troppo spesso lascia ai margini le persone più deboli. Nello stesso tempo ha evidenziato quanto la relazione sia da intendersi come tempo di cura. Ci ha esortati a vivere l’umiltà nella professione, quale condizione ideale di approccio al malato, fatta di grande disponibilità all’ascolto e alla vicinanza umana. Mi ha colpito tantissimo il concetto della medicina delle carezze”.
In effetti Papa Francesco ha insistito tanto su questo concetto: la tenerezza è la chiave del rapporto con il malato. Gesù quando toccò il lebbroso lo fece in modo attento e amorevole, rispettandolo ed amandolo: con la durezza del cuore non si capisce l’ammalato, mentre la tenerezza è una medicina preziosa per la guarigione, che passa dal cuore alle mani, toccando le ferite con amore e rispetto.
Di notevole profondità anche l’accenno che il Pontefice ha riservato ai malati, ai quali ha chiesto di essere attenti all’umanità degli infermieri, a chiedere senza pretendere, a offrire sorrisi e ricambiare quelli che ricevono, ad essere grati per le attenzioni che vengono loro riservate.
I malati – ha affermato il Santo Padre – nella concezione della fede cristiana sono le persone nelle quali è presente in modo speciale Gesù: anzi Cristo si identifica con loro quando dice: “Ero malato e mi avete visitato” (Mt, 25,36).
“Pensando alle parole del Papa – conclude Linda Prati – ho ripensato all’anno e mezzo trascorso in Hospice: questa tenerezza che ci ha trasmesso io l’ho vissuta proprio in quel luogo, che per me è stata una straordinaria scuola di vita. Credo che ogni infermiere professionista dovrebbe vivere un’esperienza in Hospice, per capire tante cose e per cogliere appieno come guardare, avvicinarsi e toccare l’ammalato, con quella capacità di muoversi in punta di piedi con grande attenzione, nella piena consapevolezza di dover rispettare al massimo la sua dignità. Sono convinta che l’approccio al malato in cure palliative sia da estendere sempre e con decisione ad ogni altra unità operativa”.

Intervista a Linda Prati


La maestà della vita_numero 22 dicembre 2017

A distanza di qualche mese, penso alla malattia di mio fratello Paolo, e all’ultimo periodo della sua vita in cui i segni del suo male erano sempre più evidenti e pesanti. Penso alle difficoltà nell’accudirlo, alla fatica di tutti noi familiari, fatica su cui pesava la consapevolezza che non sarebbe guarito. Penso a tutto questo e mi chiedo come abbiamo fatto a reggere questo peso, che spesso si trasformava in angoscia.
Da dove abbiamo preso la forza necessaria? A quattro mesi dalla morte di Paolo, io mi faccio questa domanda, e una risposta definitiva, almeno personalmente, ancora non l’ho trovata. E’ ancora in corso una discussione con Qualcuno, con cui la mia fede traballante stenta a trovare una conclusione. Ma questo è un altro discorso, non voglio parlare di questo.
Però ho ben presente la sensazione di sollievo che abbiamo avuto quando Paolo, ormai ingestibile a casa, è stato ricoverato presso l’Hospice di Dovadola. Sollievo nonostante il dolore sempre più vivo, perché Paolo continuava a peggiorare ed eravamo sempre più consapevoli che non sarebbe più tornato a casa.All’inizio il sollievo era dovuto al fatto che qualcuno avrebbe accudito Paolo al nostro posto, quando ormai a casa non eravamo più in grado di farlo. Sollievo dalla fatica, ma sempre con l’angoscia della perdita imminente. Hospice, Unità Cure Palliative: prima che Paolo vi entrasse pensavo che questo aggettivo (palliative) celasse un po’ di ipocrisia, aggettivo usato per non volere ammettere l’impotenza della medicina di fronte a certe malattie incurabili. Un luogo, dignitoso certamente, dove andare a morire. Ma niente di più.
Un giorno che ero all’Hospice, parlando con una dottoressa, le dissi che il suo era un lavoro strano, perché curava malati che non sarebbero guariti. Lei mi guardò con uno sguardo indulgente e mi disse che era orgogliosa del suo lavoro, e che molti non sarebbero stati in grado di farlo. Sul momento non ho capito. Medici, infermieri e tutto il personale avevano una grande dedizione nel loro lavoro, dimostrando un’elevata professionalità nella cura del dolore, e contemporaneamente un’attenzione alla persona che andava oltre la malattia. Attenzione che si dimostrava anche ai familiari. Ci ho messo un po’ a capire che questa modalità aveva come effetto di instaurare una relazione con la persona, al di là della malattia. Osservavo che questo era un atteggiamento che portava serenità, a Paolo e anche a noi familiari. Mi sono reso conto che questo era il modo più giusto ed efficace per aiutare Paolo e noi ad affrontare questo dolore, senza che l’angoscia avesse il sopravvento. Senza tanti discorsi, ma con la loro dedizione, a volte solo con un sorriso, medici e infermieri ci hanno accompagnato in questo difficile passaggio, fino alla sua morte.
Ci ho messo un po’ a capire che Paolo è stato curato. Anche se non è guarito è stata una cura buona, efficace. Se lo avessi capito prima sarei stato più sereno, avrei avuto modo di ringraziare. Chiedo scusa se lo faccio in ritardo, ma ringrazio tutto il personale dell’Hospice per quanto ha fatto.

Andrea


I pazienti sono sempre delle persone, ed anche quando sono, dal punto di vista della medicina definite inguaribili o come mia madre inoperabili, sono a maggior ragione persone fragili delle quali prendersi cura nel senso più’ ampio del termine. Sono il figlio di una paziente che è stata ricoverata per un lungo periodo presso l’Hospice di Forlimpopoli e posso dire che, nonostante l’esperienza vissuta all’interno del reparto durante l’assistenza a mia madre sia stata la prova più dolorosa che ho affrontato, vedere quotidianamente l’abnegazione, la dolcezza e l’umanità con la quale tutte le infermiere, i medici e le operatrici sanitarie si relazionavano con mia madre, ha molto lenito le sue sofferenze ed è stato un sollievo anche per chi come me doveva affrontare prima o poi una grave perdita. Ed è proprio durante una delle tante ore di assistenza che ho letto la frase “Al mondo ci sono 4 tipi di persone: quelli che si sono presi cura di qualcuno, quelli che lo stanno facendo, quelli che lo faranno e quelli che ne avranno bisogno”: e lì all’Hospice si comprende che chiunque può essere ognuna di quelle persone e, prima ancora di guarire, la “buona sanità” è quella che si cura dei pazienti come persone, cosa che in Hospice ho visto fare quotidianamente. Molto probabilmente tante persone non sono a conoscenza che all‘interno del sistema sanitario regionale ci sono strutture come i due Hospice del territorio che sono, a volte, un’àncora di salvezza per famiglie che vivono situazioni che non possono essere gestite a domicilio.
Cercare di supportarle, oltre che un gesto caritatevole, vuole dire prendersi cura, anche se indirettamente, di chi a volte ha solo bisogno di vicinanza, perché le medicine non possono più fare nulla, ma le persone possono ancora fare tanto .
Grazie di cuore

Roberto, figlio della paziente Pia


“Insieme sulle vie della cura“ è il motto che il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Romagna ha voluto affisso sui muri dei nostri ospedali. Compare anche in tutte le forme della comunicazione pubblica.
Come lo leggono i pazienti, come lo interpretano i sanitari? Insieme fa pensare a un’alleanza, a un patto di fiducia e collaborazione.
L’idea di cura che intende perseguire “insieme” è un’ idea larga di cura, prevede relazioni e relazione con il paziente. Di tutto il sapere medico abbiamo certo bisogno, di tutta l’assistenza sussidiaria godiamo il beneficio, ma ancora non basta.
Ci sorprende qualcosa che va oltre la gentilezza, neanche ci aspettiamo che lo sguardo del curante si soffermi sul nostro stato d’ animo di paziente.
Durante una visita medica l’attenzione si concentra prevalentemente sugli strumenti della cura, siano essi diagnostici o di refertazione.
Anche il video del computer ha preso posto sul tavolo del medico e triangola l’attenzione. Il paziente conserva e trattiene lo sguardo del medico, attende parole, spesso ne riceve meno di quelle che vorrebbe. A volte si esce confusi, insorgono domande che restano ansie. Non si è detto tutto quello che poteva descrivere meglio i sintomi.
L’esperienza di ricovero al reparto Cure Palliative di Forlimpopoli ci ha stupiti, abbiamo trovato in modo più compiuto quello che si trova solo a sprazzi. E’ bastato sentire un tempo di ascolto più rilassato, meno frettoloso, più conviviale per avvertire un clima diverso di cura.
Ritorno su “Insieme sulle vie della cura“, penso ci siano esperienze di nicchia nella sanità pubblica che dovrebbero essere conosciute e pensate come esempio.
Per camminare insieme “sulle vie della cura “dovremo pensare alla grande, passare dal “cure” al “care”, “dal curare al prendersi cura” come insieme unico che ci rende tutti più umani.
Noi ringraziamo per averci mostrato la possibilità di questo cambiamento.

Giovanna, moglie di Gheo


La maestà della vita_numero 21 aprile 2017
Mio padre si è spento all’Hospice di Forlimpopoli una sera tardi di inizio dicembre: nel pomeriggio, in quanto mi ero reso conto, insieme ai miei tre fratelli, che la sua esperienza umana volgeva al termine, ebbe la possibilità di ricevere l’estrema unzione da don Enzo Scaioli, dopo aver ricevuto assistenza spirituale già nei giorni precedenti.
Quella sera decisi, benchè fosse già partito per la Casa del Padre, di vegliarlo durante la notte e, la mattina successiva, quando uscii dall’ospedale per un caffè, insieme al freddo sferzante che tagliava l’aria, provai un senso di gratitudine, pur nella sofferenza per la perdita del babbo. Per 40 giorni è stato all’Hospice ed ha ricevuto un trattamento straordinario in uno spirito di assoluta gratuità, che, quasi, mi sembrava non meritassimo: è stato accompagnato verso la fine con una dolcezza infinita percepita fin dai piccoli gesti quotidiani di cura personale.
Qui all’Hospice l’assistenza sanitaria quasi scompare per far posto ad una compagnia umana, che senti veramente intensa nei medici e negli infermieri.
Un altro aspetto che ho notato e mi ha colpito è senz’altro l’accoglienza verso i famigliari, fatta non solo di disponibilità alla relazione, ma anche da un ambiente curato fin nei minimi dettagli per mettere a proprio agio chi si trova ad assistere un proprio congiunto. Avremmo desiderato prenderci cura di nostro padre ammalato a casa, ma la sua salute non lo permetteva: ebbene all’Hospice ci siamo sentiti come a casa: quella per 40 giorni è stata la nostra casa, per la serenità che abbiamo respirato e per i volti belli e rassicuranti che ci hanno accompagnato in questa esperienza non certo facile. Anzi, quando sono venuti a trovarlo i parenti da Caserta, abbiamo provato sentimenti di orgoglio, nel comunicare loro il trattamento che nostro padre stava ricevendo.
Infine vorrei sottolineare anche l’approccio terapeutico a cui è stato sottoposto il babbo: anche sotto questo punto di vista ho notato, nel desiderio di non farlo soffrire tramite adeguate terapie anti-dolore, un grande rispetto della dignità umana, da non confondere assolutamente con i concetti di accanimento terapeutico o di fine vita, di cui oggi si discute tanto.
Insomma credo di aver vissuto quel periodo con serenità: la vita non può certo durare in eterno, ma si possono sperimentare sentimenti di letizia e di pace anche quando si è coinvolti una vicenda umana dolorosa, come la scomparsa di un genitore.

Patrizio Lostritto


La maestà della vita_numero 19 aprile 2016
Sono Samanta Fabbri, un’infermiera dell’Hospice di Dovadola, conosco bene la nostra realtà e come i pazienti vengono gestiti in questo contesto. Cosa diversa è essere dall’altra parte, nei panni di un famigliare. Mia nonna era un’arzilla novantenne quando entrò per la prima volta in Hospice. Si era rotta una spalla in una delle sue fughe dagli occhi amorevoli dei propri figli. Nel ricovero in Geriatria aveva mostrato segni di delirio in un contesto di progressivo allettamento: i medici non avevano espresso molte speranze di recupero.
Chiesi al mio responsabile se era possibile gestire i sintomi a domicilio: lui mi consigliò un ricovero. Rimasi spiazzata, un ricovero in Hospice mi sembrava esagerato. La famiglia però acconsentì, temendo per il peggio: questi stati deliranti sono spesso associati ad un declino delle condizioni cliniche. La stessa nonna mi diceva: “Ste zir, tu’m port a murì”.
La terapia, invece, funzionò e la “Gina” fece uscire il meglio di sè: durante il ricovero ha elargito sorrisi a tutto il personale e io stesso adoravo accudirla in quel contesto privilegiato. Quel primo ricovero fu una passeggiata: tornò a casa dicendomi: “Se devo morire, voglio tornare a morire lì”.
Dopo due anni in cui è rimasta a casa, è tornata a star male: smanie, allucinazioni dopo un’ennesima caduta. Chiamai in reparto, dopo averla trovata cianotica su una poltrona: non volevo morisse in ambulanza verso il Pronto Soccorso. Chiesi e ottenni un nuovo ricovero in Hospice: la nonna non riprese più conoscenza, ma avevo la certezza che percepisse di essere in quel luogo, dove ha ricevuto cure da mani che leniscono anche se non guariscono, con possibilità di avere i propri cari vicino 24 ore su 24. Morì dopo una settimana, con a fianco i suoi cari e persone altamente professionali che hanno saputo gestire al meglio l’ennesima sfida con la morte, i miei colleghi. Perchè se è vero che tuttti dobbiamo morire, è auspicabile che questo avvenga con cure di qualità e dignità.
Posso dire che mia nonna è morta come è sempre vissuta, circondata da amici e famigliari, in un ambiente di cure palliative che ha reso possibile tutto questo: un grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno trattata non come una collega ma come una qualunque famigliare con debolezze e paure. Non ringrazierò mai abbastanza i miei colleghi.
Il mio auspicio, in Hospice, è che si continui su questa strada, trattando cioè pazienti e loro congiunti come se fossero persone di famiglia.

Samanta Fabbri


La maestà della vita_numero 18 dicembre 2015
La breve permanenza di nostro padre G. all’Hospice di Forlimpopoli è partita con sottile velo di tristezza nel cuore, perchè, conoscendo le sue condizioni di salute, eravamo purtroppo consapevoli che questa esperienza faceva parte di una delle ultime fasi che la sua malattia lo aveva portato a vivere.
Una volta però entrati all’Hospice, ci siamo sentiti a nostro agio, circondati da persone che hanno sempre dimostrato disponibilità per ogni esigenza che nostro padre o noi stessi potessimo avere. Abbiamo sempre cercato di essergli vicino, evitando di lasciarlo solo: in quei momenti in cui ciò non era possibile, sapevamo che era comunque seguito, assistito e, perchè no, anche coccolato con affetto dal personale Hospice: questa attenzione ci ha permesso di vivere il distacco in maniera meno dolorosa.

Famiglia F. G.


Qui dove il dolore si trasforma in amore
Qui dove il soffrire si può smentire
Una parola un piccolo gesto
è il bello di questo contesto.
Un sorriso, che grande terapia, costa poco.
Ma che armonia.
Sussurri, voci allegre, carezze al cuore.
Qui abita perennemente il sole
Figure bianche, gialle, azzurre,
allegre fanciulle,
che danzano leggiadre
con la musica nell’anima,
e spargono oro su quelli che le circondano.
Grigio è il cielo, ma è fuori e non fa paura
Perché qui dentro c’è chi si prende cura.

Poesia di A. M.


Per noi è stata un’esperienza in cui abbiamo visto Cristo nel volto del nostro CARO, mentre percorreva il suo calvario, ma anche in voi abbiamo potuto riconoscere e incontrare DIO che si fa prossimo e si prende cura degli “ULTIMI”.

S., S., e M.


La maestà della vita_numero 17 maggio 2015
Oggi vorrei parlare della mia esperienza all’Hospice di Dovadola. All’inizio del 2011 ho dovuto fare i conti con la sofferenza per la malattia che aveva colpito mio nonno. Sono arrivata all’Hospice stanca, demotivata, impotente di fronte all’inevitabilità della morte…
Piano piano mi sono avvicinata a una realtà in grado di infondere serenità e pace anche a chi non ne aveva da tempo… Lì ho capito che se le persone non possono essere guarite, possono essere sempre curate… la curabilità intesa come concetto olistico di spirito e corpo, che tiene conto anche della famiglia che gravita intorno al malato e non se ne dimentica.
Ho visto, così, il dolore, le sofferenze di mio nonno alleviarsi e restituirgli la dignità anche nella malattia, placando in parte la mia ansia nei confronti del dolore. Sicuramente l’esperienza dell’Hospice ha reso meno traumatico il distacco da una persona che amavo e che amo ancora così tanto…

Fabiola


Durante la permanenza di mio padre all’Hospice di Dovadola ho potuto apprezzare veramente il lavoro di tutto il personale: con quanto amore si occupano dei pazienti e anche dei parenti! E’ un luogo dove ti senti veramente capito e supportato nell’affrontare il dolore e la malattia: grazie a loro e all’aiuto di una psicologa ho elaborato la perdita di mio padre.

Katia


All’Hospice di Dovadola va tutta la mia stima e gratitudine per aver curato e coccolato con tanto amore mio padre, durante la sua malattia: vedere le sue sofferenze affievolirsi è stato per me fonte di serenità. In un momento così delicato si sono occupati di mio padre come di un amico e non di un semplice paziente: per questo non smetterò mai di esere grata.

Simona


La maestà della vita_numero 16 dicembre 2014
Dopo i primi mesi di volontariato presso gli Hospice, posso abbozzare un primo bilancio personale di questa avventura e il tutto si traduce in un’ esperienza emotivamente intensa ed appagante.? Non essendo nuovo a questo tipo di attivitá, mi è stato abbastanza naturale entrare nel ruolo, inoltre ci é stato fornito un grande supporto da tutta l’equipe che lavora in queste strutture.? Eppure all’inizio ammetto che l’impatto col paziente mi procurava un po’ di inquietudine, e questo a causa della delicata tipologia di persone che sono ricoverate negli Hospice.? Poi ho capito che fondamentalmente il problema era mio, ed era legato a quella formidabile presupposizione che vige nella nostra mente quando si associa qualcuno a questi luoghi.? Nulla di più sbagliato.?Io ho prestato servizio di volontariato a persone VIVE, ricche del loro straordinario bagaglio di esperienze umane, che hanno avuto voglia di mettersi in gioco, di interagire e dialogare.?In poche parole, tutte erano persone che fino alla fine hanno vissuto, lasciandomi il grande privilegio di essere testimone dei loro ultimi dialoghi.? Ecco perchè per prima cosa, nell’ affrontare un’esperienza di volontariato presso un Hospice, secondo me, è bene tenere a mente che si va ad interagire con una persona viva? Certo, sono persone talora con un grande carico di dolore, ma, cosa che mi ha colpito profondamente, serene e circondate dagli affetti più cari. Personalmente ritengo che uno dei posti dove abbia provato più forte la sensazione di rispetto per la dignità della vita sia proprio l’ Hospice? Alla fine, dopo il servizio, uscivo sempre con una grandissima voglia di vivere e di questo devo ringraziare coloro che ho avuto il privilegio di assistere.

Fabio Fiorentini


La maestà della Vita_ numero 15 aprile 2014
L’idea di questa serata, nasce per mia madre, che tanto avrebbe desiderato vedere questo spettacolo (ndr:.vedi box sotto) in terra e ora lo vedrà dal cielo e da una profonda gratitudine per l’Hospice. Quando la dottoressa è venuta a casa nostra, per la visita, io non capivo, …non capivo perché tanta attenzione, non capivo perché appena entrata all’Hospice, le dottoresse (non mi era mai successo prima!!), il personale, la caporeparto, mi salutassero così cordialmente, mi stringessero la mano e avessero tante attenzioni nei nostri confronti… Ero frastornata…… e non capivo……. pensavo: “Ma siete sicuri? Non vi conosco…”. “Questi si sbagliano, mi hanno preso per qualcun altro….”. “Non sono una persona importante, una persona famosa”. Mi guardavo intorno e non mi pareva di essere in un ospedale: la sala, la biblioteca, i quadri, la cucina. Io non capivo, ma dopo giorni di travaglio, dati anche dal fatto che rivedevo in mia madre quello che, solo pochi mesi prima, era accaduto a mio padre per un’altra patologia… dopo notti insonni, di senso d’impotenza…. d’insopportabile impotenza, senza sapere come e cosa fare…. per mia madre e per me, trovarci in quel luogo, accolte, ci ha fatto sentire subito meglio, come se il peso, che entrambe portavamo, fosse stato, d’un tratto alleggerito…. Lì in quel luogo, pensavo che, tutti guardano l’Hospice come un ambiente, dove non vorrebbero mai andare e io, invece, in quei giorni, l’ho trovato come un luogo benedetto perché, tanto, è inutile che ci giriamo intorno – che lo vogliamo o no – prima o poi tutti noi dovremo “passare di là”, prima o poi, anche se facciamo fatica a dircelo, dovremo morire… Allora è fondamentale che ci siano luoghi come l’Hospice, che mio padre, purtroppo, segnato dagli ictus, non ha avuto la fortuna di avere… E’ fondamentale perché il bisogno dell’ uomo non ha mai fine… E’ fondamentale sia per la persona, che sta male, quanto per coloro che gli sono accanto, perché entrambi sono nella fatica e nel dolore (e non vi dico quanto sia stato duro trattenere le lacrime di fronte a mia madre che stava morendo, e che una volta mi ha detto: “Non credevo così…” mentre una lacrima le scivolava sulla guancia). E’ fondamentale! E pensando a questo… due immagini, allora, prendevano sempre più forma nella mia mente e divenivano sempre più nette: pensavo a Madre Teresa di Calcutta, pensavo agli Angeli della Pietà del Bellini, Angeli che sorreggono il Cristo…. A Madre Teresa di Calcutta che accoglieva i sofferenti e i moribondi, rendendo loro dignità e voi dell’Hospice, voi “operatori di pace” fate questo, voi siete gli angeli che sorreggono noi poveri cristi, sfiniti dal dolore e dalla malattia. Annalena Tonelli in una sua testimonianza del 2001, cita lo scrittore Luigi Pintor e dice: “Luigi Pintor, un cosiddetto ateo, scrisse che non c’è, in un’intera vita, cosa più importante da fare, che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi.” Ed è proprio attraverso ognuno di voi presente all’Hospice, attraverso i miei cari e ognuno dei miei amici che mi è stato accanto e mi è accanto anche ora, attraverso gli amici della mia compagnia, che, ogni giorno, Cristo mi porge il Suo collo perché io possa rialzarmi.

Raffaella Bettini


La Maestà della Vita_ numero 14 NOVEMBRE 2013
Introduzione – In Hospice passano ammalati con storie ed esperienze diverse. Tutte le famiglie sono accomunate da un dolore vivo, che talora segna tutta la vita, per la perdita della persona cara. In alcune testimonianze, però, emerge che il desiderio di felicità presente in tutti, apparentemente tradito dall’incedere della morte, può trasformarsi in una esperienza in cui, attraverso la sofferenza, fa capolino un percorso verso una certezza del Bene. Di seguito riportiamo la lettera che le quattro figlie di Massimo hanno letto, durante il suo funerale.
Questi due mesi di malattia del babbo sono stati per noi una grande e continua testimonianza di fede. Ha iniziato a stare male il Sabato Santo, dopo aver partecipato alla Via Crucis la sera prima, e in questo tempo ha deciso di prendere la sua croce e seguire Gesù. Infatti, da quando è iniziata la malattia, non è mai stato preoccupato di dover sistemare tutto o angosciato per noi o per il lavoro; ha abbracciato la circostanza della malattia allo stesso modo con cui, per tutta la vita, ha accolto tutto ciò che il Signore gli poneva davanti, dalle cose più belle (come l’incontro con il Movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione e, in questa esperienza, con la mamma), a quelle più faticose come la crisi economica che lo aveva portato a dover affrontare continui e impegnativi viaggi in lungo e in largo per la Cina stando spesso lontano da casa. Dopo la diagnosi ci siamo trovati tutti in ospedale e la prima cosa che il babbo ci ha detto è stata che la vita non è come uno la vorrebbe ma non è mai una fregatura e lui e noi abbiamo ricevuto tanto. Certo di questa positività totale, che sperimentava tutti i giorni e che ricordava a chiunque lo andasse a trovare, ci ha spinto a vivere intensamente ogni circostanza, a partire dalle cose più quotidiane e banali, anche quando per noi era difficile staccarci da lui o quando eravamo tristi perchè lo vedevamo soffrire. Per lui questa circostanza così improvvisa ed estrema è stata la chiamata di Gesù e diceva di essere pronto a incontrarLo e abbracciarLo, ma questo non significava un disimpegno o una disaffezione nei confronti della realtà, anzi: l’abbiamo visto accogliere con semplicità e gioia tutti gli amici che volevano incontrarlo, anche chi non vedeva o frequentava da tempo o chi proveniva da storie ed esperienze diverse e lontane dalla sua. Abbiamo assistito stupiti al “miracolo dell’unità”. Allo stesso modo si è ancora di più rivelato nella sua bellezza il rapporto fra i nostri genitori, un attaccamento che, come dice Don Giussani, “è realmente l’inizio della stoffa dell’eterno, della consistenza finale e duratura in cui la morte non entra più neanche come fenomeno passeggero, in cui sarà asciugata ogni lacrima dai loro occhi”.
La presenza del babbo, anche negli ultimi giorni in cui non comunicava più, è stata per noi una provocazione costante, ci ha fatto crescere ancora di più il desiderio di non soffermarci sul distacco e sulla fatica, ma di fare a nostra volta i passi che ha fatto lui e di vivere anche noi con libertà e amore il disegno che il Signore ha pensato per noi.

Simona, Ilaria, Lidia, Angela


La Maestà della Vita_ numero 13 MARZO 2013
Daniela è morta a 55 anni. Moglie, madre e insegnante di religione. Daniela voleva vivere, e desiderava il miracolo della guarigione. Ma gli esiti delle terapie sono stati sfavorevoli. La lotta piano piano cede il passo a un altro cammino, quello della consapevolezza della malattia come della verità della vita. Agli amici più cari, nell’ultimo periodo, dice: «E’ tutto vero. Vivere è semplice ed è semplice anche morire: basta affidarsi». Muore il 30 dicembre, giorno della Sacra Famiglia. Nel suo cellulare un sms di risposta a uno dei suoi ragazzi: «Non abbandonate mai l’amore alla bellezza, è la ferita che ci spalanca il cuore». Così, il 2 gennaio, la chiesa di Regina Pacis di Forlì è strapiena per il funerale. Viene letta una lettera del figlio Pietro, di cui riportiamo alcuni stralci. «In questi mesi di preghiere, dolore, respiri spezzati e fatica, però, ci siamo ritrovati parte di un abbraccio più grande, una famiglia che non conoscevo: gli amici, la fraternità, i medici, la storia a cui mi hai affidato. Ho sperimentato attraverso di loro il tuo sguardo. Ci era stato detto: “Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità e la vostra fatica, che renda meccanica la vostra libertà”. Il miracolo l’ho chiesto fino alla fine, ci è stato dato un cammino. Domandare, ad ogni passo, di incontrare Colui che ha guardato così per primo, e che ha fatto sì che anche io potessi sentire su di me uno sguardo come il tuo. Il miracolo sono stati questi anni con te”.


La Maestà della Vita_ numero 12 DICEMBRE 2012
Per Anniversario Hospice di Forlimpopoli
In questa occasione intendo ringraziare il personale dell’ hospice per l’appoggio che ha dato alla mia adorata moglie Olinda. Queste mie parole andranno ad unirsi agli scritti ed alle foto che il reparto conserva di tutti coloro che sono stati assistiti in questi dieci anni di attività. Sono venuto a contatto con questa realtà durante la malattia di mia moglie, di cui è ancora vivo in me e nella mia famiglia il ricordo. Tutto il personale ci ha supportato, ha aiutato e confortato lei e noi familiari, rendendo per quanto possibile più sereno il cammino nella malattia. Con queste poche righe esprimo la gratitudine e l’affetto per il reparto, sperando che possa continuare sempre la sua opera, e lo ricordo nelle mie preghiere.

Bruno


Sono entrata in hospice nell’ottobre 2002, lo stesso giorno di apertura di questo reparto, e ci sono stata fino ad ottobre 2011, quando sono andata in pensione. Al momento in cui sono entrata ero molto titubante, avevo paura di non farcela, trattandosi di un reparto di cure palliative. Invece, ho trovato negli operatori, nei medici e negli infermieri una grande famiglia. I pazienti per noi non erano dei numeri, bensì persone con le quali abbiamo instaurato un rapporto umano molto ricco,dai quali abbiamo imparato molto e che, nonostante dovessero assumere medicinali, erano liberi di vivere secondo i propri ritmi, nel massimo rispetto delle loro esigenze ed abitudini. Per esempio, se avevano voglia di dormire a lungo di mattina, a parte gli orari dettati dall’assunzione di farmaci, potevano rimanere nel letto fino a quando ne sentivano il bisogno, oppure potevano fare il bagno nella vasca idromassaggio tutte le volte che lo desideravano. I pazienti con noi parlavano molto, confidandoci aspetti che si trattenevano dal dire ai loro familiari, per non farli soffrire.
Si instaurava un rapporto di appoggio anche alle famiglie di questi pazienti, con le quali cercavamo di istituire un dialogo, di essere di sostegno nei momenti difficili della malattia. Sono felice di avere lavorato per nove anni in questo reparto, mi sono arricchita e non dimenticherò mai tutte le persone che ho conosciuto. Mi sento di ringraziare tutti i pazienti che ho incontrato nel mio cammino, perché mi hanno insegnato il significato della vita.

Giovanna Mambelli


La Maestà della Vita_ numero 10 APRILE 2012
Durante la malattia di mio padre ho vissuto per molte volte l’esperienza di ricoveri presso l’Hospice di Forlimpopoli ed era come entrare nelle nostra seconda casa, sì, perchè per mio padre e la mia famiglia era proprio così, ci sentivamo protetti e coccolati. Grande professionalità dei medici, umanità e competenza delle infermiere e assistenza psicologica: tutte cose che non sono così scontate, soprattutto per chi vive il calvario di questa malattia ed ha bisogno di essere assistito amorevolmente. Era talmente tanta la fiducia che mio padre, quando doveva essere ricoverato, esprimeva il desiderio di andare all’Hospice, perché, come diceva lui, “mi rimettono a nuovo”. Non smetterò mai di ringraziare nei miei pensieri l’equipe, così nel mio piccolo tutti gli anni con un piccolo contributo partecipo all’Associazione Amici dell’Hospice, proprio perchè queste strutture devono esistere e svilupparsi sempre più.

Barbara


Sentii parlare dell’Hospice di Forlimpopoli per caso anni fa nel corso di una conferenza. Ricordo che mi colpì molto e pensai: “sembra un posto bellissimo, spero di non andarci mai, ma se avessi un problema di quel genere è lì che vorrei andare”. Il destino ha voluto che conoscessi la realtà dell’Hospice più da vicino. Quelle che allora erano state sensazioni ora posso dire con certezza che rispecchiano la realtà. La malattia di mia madre diagnosticata quattro mesi fa con un verdetto crudele ci ha sconvolti tutti. Tanti i sentimenti: incredulità, rabbia, terrore, dolore e poi l’accettazione inevitabile di un destino che è deciso altrove, non su questa terra. In un momento tanto difficile approdare all’Hospice ci è stato di grande aiuto. Qui veramente ci siamo sentiti accolti nel senso più ampio del termine. Non mi sento di usare il termine “ricoverata”, piuttosto mia madre è stata “ospite” di un luogo dove respiri pace e serenità tutti i giorni, quella pace e serenità che purtroppo la malattia ruba alle famiglie coinvolte. L’affetto percepito nei sorrisi, negli sguardi e nelle carezze del personale medico, infermieristico e di assistenza sono stati la terapia migliore per lei e per noi tutti. Non dimenticheremo mai questo periodo tremendo che ci ha dato la possibilità di toccare con mano una realtà davvero importante ed encomiabile del nostro territorio.

Monica


La Maestà della Vita_ numero 9 DICEMBRE 2011
La malattia del nostro babbo ci ha colto tutti impreparati come lo si è sempre di fronte ad una malattia improvvisa: è stata rapida e violenta e lo ha trasformato, fisicamente, totalmente. Lui, un uomo profondamente buono, non ha mai perso la sua affabilità con tutti, la sua attenzione per ciascuno di noi; ci siamo potuti dire cose taciute per pudore, ma che fanno bene al cuore. Il babbo, dopo la morte della nostra mamma, avvenuta tanti anni fa, si era risposato ed è stato importante per noi poterci guardare l’un l’altro, le due famiglie, attraverso il suo sguardo di bene per ciascuno di noi. Tutti stretti attorno a lui, non l’abbiamo mai lasciato solo, neanche un momento e con noi sono stati presenti gli operatori dell’equipe domiciliare dell’hospice, che hanno sostenuto lui e noi nella lotta breve, ma che sembra infinita, verso il compimento della vita del babbo. Poi il ricovero all’Hospice: la scoperta di un luogo dove il babbo potesse essere curato con attenzione così da rendere dignitoso anche il morire, senza trasandatezze né nel luogo, né nel personale, anzi di più, un luogo “bello” dove il babbo e tutti noi potessimo godere della cura in ogni istante. “Bello” se si può dire, anche l’inevitabile morire, perché bello è l’abbraccio all’umanità ferita.

Carmen


Quando circa due anni e mezzo fa ho saputo che mio genero Mario era affetto da un tumore inguaribile, non ho potuto fare a meno di rivolgermi al Signore chiedendogli quella forza che solo Lui sa dare per essere di aiuto a mio genero, mia figlia, e i miei nipotini. Negli ultimi due mesi, trascorsi in Hospice, ho fatto ciò che mia figlia avrebbe voluto fare, ma che non poteva fare per il dovere di mandare avanti la famiglia, e che mi ha affidato: la premura di accudire Mario nella quotidianità. Ricordo le infermiere e le altre operatrici che provvedevano alla cura personale di mio genero, e, mentre lo spalmavano di crema su tutto il corpo, avevano battute spiritose, che gli toglievano l’imbarazzo del momento creato dal pudore. Abbiamo trascorso, oltre ai momenti difficili, anche momenti di serenità, come quando a Pasqua la signora “Maria”, moglie di un altro paziente, ha cucinato per tutti un pranzo delizioso, consumato insieme in sala da pranzo, come in una grande famiglia fatta da pazienti, familiari, e operatori. E la grande familiarità che si è creata fa sì che, quando mi trovo a Forlimpopoli, ogni tanto io passi a fare un saluto ai dottori e al personale. Spero che questa esperienza di familiarità sia sempre più possibile in ogni struttura ospedaliera, e sia messa in primo piano la dignità dell’uomo, specie di quello ammalato.

Fabiola


L’iniziativa di organizzare un concerto a favore dell’Associazione Amici dell’Hospice nasce dal desiderio di fare conoscere la realtà dell’Hospice e il valore aggiunto del sistema integrato messo in atto da questa Associazione, che si affianca al servizio sanitario per completarlo ed arricchirlo di senso in termini di cura e solidarietà alle famiglie coinvolte nell’assistenza al malato. Anche noi abbiamo vissuto la medesima esperienza della malattia dei nostri cari; nel percorso delle cure mediche e ospedaliere siamo approdati all’Hospice nella fase più delicata e difficile della malattia. Abbiamo sperimentato la presa in carico del paziente terminale e scoperto che c’era la possibilità di dare un significato diverso alla parola “terminale”: non è stato il tempo del “non c’è più niente da fare”, né un tempo vuoto di attesa. Tutto il personale sanitario ci ha dimostrato una dimensione di cura, professionale e umana, accompagnandoci per accostarci alla malattia, riuscendo ad individuare sempre, pur nell’inarrestabile declino, il margine di vitalità residua dei nostri cari, margine che raccoglievamo come risorsa. I nostri gesti quotidiani di cura sono diventati un modo diverso per comunicare in modo tangibile tutto il nostro affetto.

Paola, Chiara e Andrea Vasumini


La Maestà della Vita_ numero 8 APRILE 2011
“Sono arrivata quattro anni fa, con molto entusiasmo, in un ambiente per me del tutto nuovo. Nonostante la mia esperienza lavorativa, sono entrata in punta di piedi e ho conosciuto nuove colleghe e nuovi pazienti. Mi sono sempre messa in gioco senza risparmiarmi. Ho pianto, ho riso, ho consolato, abbracciando. Questa esperienza è servita a migliorare il mio carattere e ad approfondire le mie conoscenze nei confronti delle patologie oncologiche. E’ per questo che, quando ho dovuto decidere cosa fare in un momento delicato della mia vita, ho detto grazie a chi mi ha dato l’opportunità di fare questa bellissima esperienza”.

Rosalia
(OSS Hospice di Forlimpopoli)


La Maestà della Vita_ numero 6 MARZO 2010
Mi chiamo Italo Eugenio, sono il padre di Cristina, una ragazza che purtroppo non gliel’ha fatta a sconfiggere il cancro. Mia figlia era una ragazza solare che amava la vita. Con il suo lavoro si era resa indipendente, finché un giorno, a trentun anni, in seguito ad un forte mal di testa e perdita di equilibrio, fu ricoverata in neurologia. Dopo vari esami, le fu diagnosticato un tumore al cervello. Pochi giorni dopo, non senza incertezze e dubbi, Cristina veniva operata con successo al Bufalini di Cesena. Ma, trascorsi pochi mesi, per i postumi della malattia, si rese conto di non essere più in grado di riprendere il suo lavoro. Fu allora che un giorno mi disse: “babbo ho deciso di iscrivermi all’università in scienze dell’educazione”. Cinque anni dopo Cristina si laureava brillantemente con una tesi su: “Processi formativi dell’adulto”. Purtroppo, nel frattempo, la malattia cominciava nuovamente a manifestarsi. Per Cristina e per noi genitori incominciò un lungo calvario. Per un periodo di alcuni mesi Cristina fu seguita a casa dall’assistenza domiciliare, ‘home care’. Anche se Cristina perdeva progressivamente le forze, la vista, la capacità di muoversi, non ci faceva mai mancare il suo sorriso. La casa era sempre frequentata da parenti, amici, vicini; qualcuno una volta mi disse: “quando vengo qui ritrovo la carica e la forza per vivere”. Un giorno, però, dopo un forte attacco epilettico, Cristina entrò in coma e fu ricoverata in Hospice. Quando si risvegliò, pochi giorni dopo, aveva perso l’uso degli arti, della parola, non era più in grado neppure di ingoiare un sorso d’acqua. Solo attraverso il suo sguardo dolce, chiudendo e aprendo gli occhi, riusciva a comunicare con noi. Tutto questo durò per ben quaranta giorni, fino al suo decesso. All’Hospice ho avuto modo di evitare di cadere in un baratro senza ritorno; non è sempre vero quel detto che dice che “di dolore non si muore”. Quando l’angoscia ti stringe la gola fino a toglierti il respiro, e sono giorni e giorni che non senti né fame, né sete, è talmente forte il dolore che può portarti a commettere qualunque azione. Ed ecco che diventa importante l’aiuto di chi sta vicino, degli amici, dei medici, di tutto il personale addetto, non solo per il paziente, ma anche per i familiari che da mesi e mesi si trovano in prima linea a combattere una battaglia persa, che attende sempre un miracolo e ti fa chiedere: perché proprio a me, perché proprio a mia figlia? Dopo la morte di Cristina ho iniziato a fare il volontario per l’Associazione “Amici dell’Hospice”, per me questo servizio è un modo per esprimere la gratitudine per la vita di mia figlia che mi è stata donata e mantenere sempre viva la sua memoria. Io sono un uomo fortunato perché ho avuto una figlia meravigliosa!

Italo Eugenio Cangini


La Maestà della Vita_ numero 5 NOVEMBRE 2009
Fino a poco più di un anno fa non conoscevo l’Hospice, tanto meno potevo immaginare fosse prevista una figura riabilitativa nell’ambito delle cure palliative. Il corso di laurea non propone lezioni teoriche a riguardo, né ore di tirocinio, ma penso sia un errore, anzi, credo che potrebbe essere il punto di partenza ideale per chi decide di intraprendere la strada della fisioterapia.
“Risolvere il problema”: è questo l’obiettivo al quale spesso siamo chiamati a tendere, nel lavoro ma non solo; è come se fossimo continuamente alla ricerca del pezzetto che completi il puzzle e ci faccia dire “a posto!”. Qui però, come spesso accade nella vita, quel pezzetto non si trova…
Dal primo giorno in Hospice è stato chiaro per me che con questi pazienti la riabilitazione “classica”, appresa e già sperimentata in altre sedi, non poteva essere sufficiente; il dolore e la sofferenza nel nostro reparto sono drammi quotidiani e generano un senso di limitatezza con il quale ho dovuto confrontarmi per capire che non potevano avere il sopravvento.
Certo, il mio lavoro consiste sempre nell’aiutare i pazienti a recuperare il maggior livello di autonomia possibile, nel consigliare un ausilio, o nell’educare i familiari alla gestione del loro caro, e tutto questo è importante e assolutamente necessario.
Prima di tutto però sono persone, che hanno bisogno di essere incontrate, abbracciate, accompagnate, e questo aspetto viene molto prima di qualunque grado di disabilità. In questi mesi sto imparando che i nostri pazienti (ma tutti i pazienti) andrebbero guardati così: con l’umanità di chi vorrebbe guidarli e sostenerli nel pieno recupero delle loro capacità e l’umiltà di chi si rende conto che quelle persone ci sono affidate, ma la loro guarigione non è nelle nostre mani.
Ogni mattina si rivalutano le condizioni cliniche, si fissano nuovi obiettivi e si lavora per raggiungerli, consapevoli che ciò che più conta è essere lì, con e per loro. Così ogni momento si riempie di significato e qualsiasi gesto, per quanto semplice, acquista l’importanza e l’efficacia dell’intervento riabilitativo più specifico.

Sara Pirotti
(Fisioterapista Associazione Amici dell’Hospice)


La Maestà della Vita_ numero 4 MARZO 2009
Esiste un linguaggio non solo verbale che scaturisce da quel rapporto unico fatto di sentimenti, razionalità e volontà di comunicazione tra due esseri umani. Io ti guardo negli occhi e cerco di leggere attraverso di essi ciò che hai dentro il tuo cuore e che inevitabilmente traspare; scruto il tuo sguardo per cogliere da ogni sua espressione i segnali di un disagio o di una richiesta; ascolto le tue parole cercando di afferrare il loro
significato per adeguare nel modo più appropriato le mie risposte;
percepisco il tuo silenzio e il tuo distacco che celano la paura di affrontare la dura realtà. Tu per me “sei” per sempre e con te mi impegno in una relazione di fiducia, lealtà e alleanza per vivere questo momento della tua (e anche della mia) vita che ha il carattere di eternità. Come medico “posso” accompagnarti con la mia scienza ad affrontare questo passaggio nel modo più sereno possibile, ma nel mio intimo “non posso” dimenticare che tu sei un individuo con il tuo presente, il tuo passato e il tuo contesto familiare. E’ questa la dimensione affascinante del mio lavoro, che non è solo il compimento ordinato dei piccoli doveri di ogni giorno, ma la grandezza dell’amore che scaturisce da ogni singolo contatto umano. Amore che prima di tutto ricevo, che mi sforzo di dare nonostante le mie debolezze e che mi rende più forte perché mi aiuta a dimenticare me stessa in un contesto in cui “l’altro” diventa più importante. E così la sofferenza, le incomprensioni, le difficoltà, le sconfitte e le vittorie costituiscono un bagaglio in cui ci si sostiene a vicenda nella presa di coscienza del cammino che resta ancora da percorrere.

Barbara Marelli
(Medico Associazione Amici dell’Hospice)


La Maestà della Vita_ numero 3 NOVEMBRE 2008
L’Associazione Amici dell’Hospice” è in contatto con l’Hospice “San Riccardo Pampuri – Casa della Divina Provvidenza” sorto alla periferia di Asunciòn (Paraguay), gestito dal missionario Padre Aldo Trento.
Per 14 anni è stato là anche il sacerdote forlivese don Alberto Bertaccini, consigliere dell’Associazione Amici dell’Hospice, ora ripartito per l’Ecuador. Il Dott. Maltoni ha effettuato una settimana di formazione al personale dell’hospice paraguaiano, finanziata da un progetto della Regione Lombardia.
L’Hospice nasce il 1 maggio 2004. In Paraguay le strutture sanitarie vengono chiamate “Clinica”, e anche questo hospice viene chiamato “la Clinica”. Il calendario riporta (oltre a S.Giuseppe), S.Riccardo Pampuri, che era medico condotto nella bassa milanese, e il cui corpo è ora esposto e venerato a Trivolzio, vicino a Pavia. Padre Aldo ha voluto dedicare la Clinica alla Divina Provvidenza e a San Riccardo.
La Clinica nasce per rispondere all’esigenza concreta della realtà di molte persone indigenti, per lo più sole od abbandonate, malate  di cancro e di aids nelle fasi inguaribili e più avanzate di malattia. Dagli 11 letti iniziali si è passati ai 27 attuali. Ora si sta costruendo la nuova clinica di 40 posti. Padre Aldo richiama continuamente al fatto che ciascun ammalato sia messo nelle condizioni di incontrare Gesù, non come coercizione, ma come esperienza di un incontro: attraverso un’attenzione all’ammalato da parte del personale e alla visita costante del Padre, che tre volte al giorno fa la processione in tutto l’hospice col Santissimo Sacramento (che rimane sempre esposto in una piccola teca nel corridoio). “E’ Lui – dice Padre Aldo – il vero Direttore della Clinica”. “Mas mas humanidad, mas mas profesionalidad” va diventando sempre più lo slogan della Clinica: maggiore umanità,maggiore professionalità! Tutto nacque una sera in cui Padre Aldo, ritornando in parrocchia, vide un moribondo per la strada. Senza pensarci troppo, lo portò a casa, accudendolo, sfamandolo, dandogli un giaciglio. Da lì si sviluppò l’idea di iniziare ad assistere le persone bisognose, senza mezzi economici, con patologie gravi. Successivamente il Padre conobbe un medico uruguagio che in quel momento, lontano dal proprio paese, lavorava in un’agenzia viaggi, e alcuni giovani di buona volontà, che divennero i primi operatori sanitari. Oggi, oltre al responsabile medico, sono presenti altri due medici fissi e un volontario, molti specialisti per le consulenze, un servizio di fisioterapia, una direttrice, due caposala, una psicologa, un’assistente sociale, una suora volontaria, Padre Aldo, 15 fra infermiere professionali e generiche, e tutto il personale addetto ai vari servizi. Le spese sono tante e si fa carico di queste la Provvidenza. Si è stabilito un rapporto di amicizia e di collaborazione dall’Italia alla Clinica, testimoniata, per esempio, dalla riunione medica settimanale in videoconferenza, nella quale insieme si analizza la situazione clinica di ogni paziente. Altra modalità concreta di collaborazione è quella dei momenti di formazione. Nel maggio di quest’anno il Dott. Maltoni ha tenuto un corso finanziato dalla Regione Lombardia al personale della Clinica, sul tema del dolore, della dispnea e dei sintomi refrattari. La Clinica lo aspetta di nuovo accogliendo l’invito a realizzare un convegno nazionale sulle cure palliative, di concerto con tutte le realtà scientifiche del paese, in occasione dell’apertura delle nuova struttura.

Dott. Quinto Massari
(collaboratore di Padre Aldo)


La Maestà della Vita_ numero 2 MARZO 2008
Se all’Hospice di Forlimpopoli è presente una fisioterapista è grazie all’ Associazione Amici dell’Hospice; ciò accade perchè, ad oggi, il fisioterapista non è indicato come figura professionale necessaria nell’equipe per ottenere l’accreditamento di un Hospice.
Sono ancora numerose in Italia le realtà per i malati in fase avanzata dove il fisioterapista non è presente, anche a causa dell’ottica con la quale, erroneamente, si inquadrano le Cure Palliative.
È, infatti, opinione comune che l’aspettativa di vita della persona con malattia in fase avanzata sia molto breve e perciò priva di speranze di eventuali miglioramenti sia clinici che nell’ambito delle autonomie. Agli stessi operatori sanitari appare talvolta incomprensibile, se non contraddittorio, l’utilità di un intervento riabilitativo mirato al recupero o al mantenimento dell’autonomia, rispetto alla condizione del malato in fase critica che, frequentemente, versa in una situazione di grave fragilità psico-fisica.
Personalmente anch’io ero dubbiosa in merito a questo tipo di riabilitazione, fino a quando mi è stata data l’opportunità, poco più di un anno fa, di lavorare all’Hospice di Forlimpopoli. Stare davanti ad una persona che soffre è sempre stata una cosa difficile, ma il doversi confrontare con persone con malattia inguaribile mi ha costretto ad un vero ribaltamento culturale.
Nelle Cure Palliative il fisioterapista non deve avere la presunzione di poter guidare il paziente verso la soluzione dei suoi problemi, ma migliorarne la qualità di vita, per renderla il più possibile confortevole e soddisfacente. E il mio compito è cercare di concretizzare questa bella definizione.
In pratica cerco di aiutare il paziente a recuperare o mantenere alcune abilità motorie e funzionali, che gli permettano di interagire con l’ambiente, che possono essere il mettersi a sedere dopo un lungo periodo di allettamento o l’andare a mangiare a tavola, magari con un suo familiare. Alcuni obiettivi possono anche apparire limitati, ma a volte sottovalutiamo quanto enorme può essere un piccolo passo.
Per le persone ricoverate in Hospice è importante l’aiuto di un fisioterapista che sappia valorizzare ed impiegare al meglio le risorse ancora disponibili senza privarli prima del tempo delle possibilità che ancora la vita offre loro, rendendoli indipendenti per tutto il tempo possibile, regalando loro la felicità di potersi ancora prendere cura di sé stessi.
Penso che lavorare in Hospice voglia dire credere che la vita valga sempre la pena di essere vissuta. I nostri pazienti devono sapere che riconosciamo la loro sofferenza, che rispetto a questa a volte ci sentiamo limitati, ma che nonostante tutto crediamo che meriti andare avanti; non per uno sforzo, ma perchè crediamo che sia sempre possibile trovare un aspetto positivo da cui iniziare o ri-iniziare.

Chiara Legnani
Fisioterapista


La Maestà della Vita_ numero 1
Sono un’infermiera, da molti anni svolgo un lavoro di assistenza domiciliare ai malati oncologici, da cinque anni all’interno dell’equipe di cure palliative per l’Associazione Amici dell’Hospice.
Assistere giorno per giorno i miei pazienti, vivere il dramma della sofferenza e della morte ha reso evidente che la cura della malattia non poteva essere l’unico scopo del mio lavoro. E’ stato necessario un capovolgimento, un cambiamento di mentalità. Per lavorare nella pace è necessario mettere in gioco la mia persona in un rapporto e guardare il limite come occasione per me e per l’altro. Solo così è possibile fare da subito un’esperienza.
L’obiettivo non è più la malattia, ma la persona. Il termine “cure palliative” che può essere vissuto con un’accezione negativa è invece lo strumento adeguato per guardare alla persona come curabile fino alla fine. E’ una cura attiva e caritatevole alla persona in tutti i suoi aspetti: fisici, psicologici, relazionali e spirituali. Tutto dell’altro mi interessa e ha bisogno di essere compreso ed abbracciato, ma per realizzare questo è necessaria una condizione: stare di fronte all’altro. Chi mi sta di fronte non è uno che soffre e basta, ma una persona che mantiene intatta la propria dignità anche se perde giorno per giorno le proprie capacità di autosufficienza. Accompagnare il malato significa condividere, assieme ai suoi familiari, la sua quotidianità dentro un rapporto aperto a tutte le sue domande ed esigenze. In questa dimensione nasce un dialogo a volte anche molto profondo, emergono le speranze e i sogni ed il bisogno di dare un significato a quello che si sta vivendo, domande sulla vita e sulla morte, sul dolore e la speranza.
A volte è sufficiente essere presenti solo con una condivisione silenziosa e discreta fatta di piccoli gesti, abbracci, attenzioni. Si valorizzano insieme piccoli istanti di serenità ed allegria, si può aiutare l’altro ad accettare anche il degrado del corpo se lo si guarda con tenerezza ed amore. Non si accompagna a morire ma a vivere; attraverso la malattia accettata, infatti, i pazienti spesso testimoniano una vita più intensa.
Nel mio lavoro di assistenza domiciliare è molto importante anche il ruolo dei familiari che sono parte attiva, collaboratori terapeutici; con essi il dialogo e il coinvolgimento sono continui, si scambiano domande, consigli, sostegno. Decisivo per la qualità dell’assistenza è il lavoro di equipe: la comunicazione fra gli operatori permette di offrire una risposta il più possibile adeguata. Per quanto riguarda la mia esperienza quotidiana mi sento continuamente arricchita, quello che ricevo è molto più di quel che sono capace di dare.

Angela Pozzi